"IDENTIKART" sta per "identikit artistico" e, come un identikit, non può fornire che l'attendibilità e la probabilità di un ritratto costruito sulla capacità mnemonica visiva, sull'emotività e l'intuizione riduttiva del testimone, nel vizio di un contesto occasionale: così non lo può questa rapida escursione in una parte dell'opera giovanile di Franco Alquati.
Anche gli estratti di stampa riproposti alla lettura sono la controprova dell'impossibilità di una compiuta analisi dell'operato artistico di Franco Alquati, data la troppo diversa dislocazione nel tempo e dei fatti e dei giudizi di cui facilmente si intuisce la parzialità analitica. L'artista stesso non ci aiuta molto se si pon mente a certe datazioni di suoi lavori (ad es. 3000- 1983- 3008 ecc.). Dimostrazione della posizione atemporale dell'arte? Rifiuto del tempo presente? Un discorso aperto e pieno di incognite ed ipotesi interessantissime.
Che cosa accomunava Joyce, Strawinsky e Picasso? Che non avevano niente da dirci, o meglio non volevano dirci niente sopra se stessi e dunque sul loro rapporto con la realtà, ma moltissimo sull’arte e sul rapporto con l’arte. Indifferenti nei riguardi del mondo al quale rifiutavano qualsiasi partecipazione che non fosse mediata dall’arte, questi tre artisti erano caratterizzati da una genialità di specie riflessa, critica, tecnica, contemplativa. Prima ancora che l’anima del creatore, avendo l’occhio dell’esteta, il fiuto del conoscitore, la mano dell’imitatore. Erano tre geni voraci e versatili che dopo aver bruciato in pochi anni la carriera dell’artista tradizionale legato alla rappresentazione della realtà, avrebbero saputo oltrepassare il limite, il tempo invalicabile dell’esaurimento, spostando la loro opera dalla vita alla cultura. Per mandare ad effetto una simile operazione bisognava avere il coraggio, attraverso uno sperimentalismo eretto a sistema, di negale la validità di aspirazione al già vissuto ed attribuirla invece al detto. In altri termini, di sostituire al mondo il “museo”. E’ quello che hanno fatto Joyce, Strawinsky e Picasso che, a ben guardare, sono stati i curatori di un immenso inventario per fini di appropriazione e di saccheggio. Del resto era giusto così. A partire dal primo conflitto mondiale e dal conseguente crollo dei valori, tutta l’arte del passato, colpita da morte improvvisa, diventa istantaneamente “museo”. Ora, il “museo” a che serve, se non a stabilire dei paragoni improbabili degli accostamenti riduttivi, dei cataloghi catastrofici? Con il “museo” spunta l’idea della relatività degli stili, della pluralità delle forme e della vanità dell’espressione. In ultima analisi l’idea del consumo inteso come trasformazione della creazione in prodotto. Joyce, Strawinsky e Picasso sono, involontariamente, i tre artisti geniali e disinteressati che hanno fornito al consumo, sinora ignobile e mercenario, le sue carte di nobiltà, facendo scaturire non più dalla richiesta del mercato ma dall’esigenza culturale. Trattando l’arte del passato come un repertorio di stilizzazioni manieristiche, ne hanno reso possibile lo smercio di massa. Ladri di forme, hanno ucciso la vita nelle forme, le hanno ridotte a schemi. Essi hanno probabilmente chiuso per sempre l’era degli artisti che avevano qualcosa da dirci; hanno iniziato l’era degli artisti che hanno qualcosa da darci. Giochi di parole a parte, con loro comincia il grande manierismo alessandrino di tipo atlantico, basato sulle società consumistiche dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Comincia il cimitero-emporio-spettacolo-fiera-esposizione dell’arte ormai condannata ad essere per sempre contemporanea e d’avanguardia. Queste le parole scritte da Alberto Moravia in “Picasso blu e rosa”. Notula diagnostica d’un male curabile con il solo bisturi o addirittura incurabile. Ipotesi, ma non tanto, di un moto irreversibile della cultura universale, fagocitatrice dei miti e mitizzatrice del rito distruttivo della tecnologia che progredisce in quanto distrugge.
Arte pluralistica nell'unità della aspirazione tessa alla coordinazione del mondo tutto pieno di cose, esseri, condizioni, circostanze, avvenimenti, fenomeni, in un ritmo di essenza unitaria e d'esistenza multipla. Senza temere di allontanarci dal vero, potremmo affermare che Alquati interpreta visibilmente l'uomo interiore nel suo tempo, in parte teso al possesso totale dell'universo ed in parte terrorizzato in senso fisico e metafisico dalla tremenda alea di questo possesso. Ed è precisamente questo uomo dissociato che Alquati carica, nelle sue figurazioni, di una evidenza potente (anche se alla fine negativa) e di una capacità possessiva (anche se è capacità di prendere o essere presi, uccidere o essere uccisi) che è rappresentazione di un amore per la vita nelle sue espressioni ed implicazioni più favolose quanto più realistiche. Ecco finalmente un pittore che non si lascia adescare dalla sciatteria furbesca di certa arte disonestamente disumanizzata per una sua intrinseca incapacità di essere umana. Un artista serio ed onesto che si fa grande nella sua umiltà, riamanendo umile nella sua effettiva grandezza. Alquati assume il mondo come oggetto sintomatico d'arte essenziale ed esistenzialmente vera. Contestando certe impostazioni critiche che hanno creduto di vedere vocazioni ornamentali fini a se stesse in certe meticolosità grafiche dell'Alquati, superficialmente analizzate, varrebbe la pena di fare riferimento ad una inconscia spinta verso l'esasperata ma non gratuita manualità, impegnata solo come apparato di contenimento alla continua prorompenza della linea inventiva. Il Ghilardi, in un articolo su un editoriale cremonese, leggeva tuttavia, nel contesto originale, una ricerca d'ordine nell'equilibrio formale e morale dell'opera dell'artista. Per gli sciatti è logica l'accusa di calligrafia ove si tenga per buona solo una pessima grafia sintetica impalcata sul vuoto sentimentale. Alquati ci sa fare e lo dimostra ampiamente e non ci sembra gran male. Alla base di molta arte contemporanea c'è una continua tentazione di sopprimere tutti gli elementi costituzionali della geometria elementare principalmente con lo svuotamento di ogni corposità nella volumetria del mondo oggettivo. Alquati tende invece a una costante unificazione coerente dell'arte-uomo con l'uomo-arte in un interscambio atto ad un'analisi più approfondita. Un'arte contraria alla logica è un'arte contro natura , dal che la constatazione che l'arte di Alquati non solo non è contraria alla natura per la sua naturale profondità, ma non è nemmeno illogica per quella costante logicità toccante del tessuto connettivo formale che giunge spesso agli altissimi livelli della drammaticità naturale. La logica d'arte poi, naturalmente coinvolta dalle accettazioni estetiche, seppur giunge alla deformazione, è per determinare una realtà diversa nella misura di una forma superiore, giustificante la deformazione stessa. Il mondo oggettivo o fantastico di Alquati è un mondo che pare uscire da un diluvio universale o stia per precipitare nel vortice di un diluvio deflagrante. Tuttavia l'arte di Alquati riesce sempre a comporre e ricomporre un mondo (non il mondo) con una incredibile fiducia ontologica, capace di superare quell'insopprimibile pessimismo da cui emerge la possibilità di un recupero rasserenante (in senso leopardiano) nel rapporto tra ispirazione e caratterizzazione, donde anche la situazione esteriore si interiorizza. E' appunto nel suo dedans che Alquati elabora e rielabora la forma naturale, offrendole quel peso sentimentale senza del quale l'arte sfugge all'uomo, come l'uomo sfugge all'arte. L'arte di Alquati possiede la grazia di un'intelligenza tale per cui l'artista che avverte i turbamenti d'una coscienza tutta aperta all'alea ad alla problematica umana, si senta man mano sempre più turbato, specie da un'autocritica che diventa facilmente la disperazione vera di chi crede (o teme) di non sapersi inquadrare in un avvenimento storico o incorporarsi nella rivelazione impressionante di un ordine nuovo, dove i rimbalzi della realtà oggettiva coincidono miracolosamente coi riflessi soggettivi della psiche. Franco Alquati è dotato di un'acuta intelligenza che potremmo dire lirica e quindi arbitraria e insieme di un'intelligenza critica, donde scaturisce un'arte, volta volta, al bivio congiuntivo d'una persino troppo avventata fantasia e d'una persino troppo sorprendente realtà oggettiva.
'Le forme che lo spirito ha scelto dalla dispensa della materia ci lasciano facilmente ordinare tra due poli. Questi poli sono:
1) la grande astrazione;
2) il grande realismo.
Tra questi due poli sono molte le consonanze ottenibili combinando l'astratto con il reale. Questi due elementi sono sempre esistiti nell'arte, designati come il "puramente artistico" e "l'oggettivo". '
- Wassily Kandinsky
'Anche nell'arte di F.Alquati si rappresenta sempre, al di là della grammatica formale, l'incrocio drammatico tra fisicità e spiritualità nella ricerca cocente d'una verità concreta nella universalità dei dati psico-etici e dei segni grafici. Egli fugge alla dissipazione immancabile del guardare all'aperto, riportando la vita (nei suoi aspetti più preoccupanti e nel dinamismo conflittuale con responsabilità prospettiche) al suo vedere nel gioco delle intuizioni. F. Alquati governa la massa dirompente della linea-invenzione per estrarne la sintesi grafica dei motivi psico-logistici nella loro aggressività più complessa. Un pittore che signorilmente coinvolge la tendenza di un astrattismo, diremo così, pliocenico (pensando ad un pliocene dell'arte), filtrandolo attraverso una grigliatura d'una introspezione istintuale ed intellettuale che scaturisce da una appena appena, larvata "peine de vivre". La sua raffinata arte, a volte incastrata in certi alogismi che scaturiscono, in termine psicoanalitico, dalle zone del profondo, riesce sempre a riportare la tranquillità dell'ordine dal caos delle impressioni, dalla mareggiata degli atteggiamenti fino allo pseudoschematismo che lascia sospettare, ma anche chiaramente leggere, un mondo composto, una realtà-dono che, dopo un'alluvione di presagi sorpresi all'urto con l'acutezza delle contingenze, concretizza, per magia, da una radice di paura, una poesia razionale. Il taglio della composizione è d'una sentita e collaudata capacità intuitiva e di mestiere. Citando Kandinsky si può concludere che - "ciò che più conta non è il fatto che la forma sia personale, razionale, di buon stile e se corrisponde alla corrente principale dell'epoca o no, se abbia affinità con molte altre forme o con poche, se sia del tutto isolata o no; ciò che più conta nel problema formale è stabilire se la forma sia sorta da una necessità interiore o no"-. Tuttavia una personalità forte e ben caratterizzata quale è quella di Alquati, impalcata su un autentico spirito autocritico (se non quasi autolesionistico), non può che approdare a quella fatale sponda lirica dove giungono, presto o tardi, i grandi spiriti tormentati dal demone dell'arte più autentica.'
- Jgor Fröen